lunedì 16 gennaio 2012

Negozi sempre aperti? Leggetevi Momo!


di Roberto Carroll

Sul tema della liberalizzazione degli orari per i negozi commerciali si dovrebbe puntare lo sguardo più ad una visione sociale che economica dell’accadimento.


Vi sono prese di posizione in favore come quella della giarrettierata Michela Brembilla mentre per altri il provvedimento mira solo a favorire le grandi distribuzioni, ( i centri Commerciali coi marchi a loro legati tipo Auchan, Mediaworld. Mac Donald per intenderci) penalizzando i commercianti medio piccoli. Logicamente perché quest’ultimo tipo di commerciante possa sostenere la concorrenza dovrebbe o rinunciare di andarsene a dormire o dotarsi di personale ma dato il perdurare della crisi e il non abbattimento dei costi contributivi non presagisco un’improvvisa raffica di assunzioni nel settore. Inoltre il bluff occupazionale è già stato messo sul tavolo allorquando s’insediarono i primi megacentri commerciali. La propaganda imprenditoriale, unita a quella dei media televisivi e confortata dai rappresentanti politici del tempo, vaticinava una occupazione nel settore come mai se ne potesse immaginare: una specie di rivoluzione copernicana. Il risultato di tale rivoluzione è sotto gli occhi di tutti. Contratti a brevissimo termine; turni di lavoro spesso indefinibili; personale scarsamente qualificato ed altre amenità.

Chiarito quindi che con l’apertura non stop il maggior beneficio è ancora genuflesso al Capitale (che non mancherà di spremere ulteriormente i propri lavoratori a termine) resta da chiedersi quale utilità ne può trarre la nostra società già abbondantemente immersa in una trottola commerciale.

Gli illuministi del portafoglio svelano esserci una necessità familiare. Secondo loro le famiglie italiane hanno il diritto, terminata la giornata di lavoro, di trovare ogni tipo di negozio aperto per effettuare le loro spese. Chi vive una vita comune sa che tra le tante necessità questa non rientra tra quelle per l’effettiva esistenza. Non solo per l’elasticità oraria che offrono i Centri Commerciali ormai presenti anche nei più sperduti pollai della Penisola ma anche per quella ancor sana abitudine che vuole il lavoratore italiano, a fine giornata, tornarsene a casa e magari intorpidirsi davanti alla tele, oppure divertirsi coi propri figli, litigare col coniuge, mettersi su un cesso e leggervi il giornale.

Questa idea “americana” del sempre aperto è una ulteriore prova, se mai altre ne occorrano, che il cittadino italiano preso in esame dal Potere è soltanto un portafoglio ambulante, la cui socializzazione deve trovare apparenza (non sostanza) in luogo/contenitore in cui il contatto possibile non deve essere tra persona e persona ma tra individuo e merce.
Sui primi anni 80 uscì un bellissimo film dal titolo molto curioso: Koyaanisqatsi.
Il film presenta, ala stregua di documentario, la vita umana nelle metropoli. Una vita accomunata da un senso di solitaria appartenenza in una società che si muove inespressiva tra scale mobili e palazzi di centri commerciali, dentro interminabili code di auto a passo di lumaca, sotto un cielo che pur assolato non offre alcuna sensazione vitale. Questi esseri enormemente panciuti spendono una vita senza capo né coda, rimpizzandosi di panini fast food, trascinandosi con borse stracolme, fissando vitrei avanti a loro, con bocche pressoché immobili.

La musica, (di Philip Glass se non ricordo male), leggeva benissimo ampliando questo tema dell’isolamento.
In termini più fantastici ma vantando lo stesso fondo di verità, si muove anche il Momo dello scrittore Michael Ende. Anche in questo libro troviamo una umanità ancora umana messa in mezzo da uomini grigi asserviti al motto che “il tempo è denaro”, capaci con le loro chiacchiere di stravolgere un equilibrio in una schizofrenia di mercato che porta i personaggi ad alienarsi dagli stessi primitivi affetti.

Dunque in questa smania di disponibilità a tutto ed in ogni momento vi ravviso qualcosa di sbagliato e disumanizzante; il cammino dell’essere che da umano si fa “pollo d’allevamento” (per usare un’espressione di Gaber): ingozzarsi, defecare, ingozzarsi. Il cui equivalente diventa acquistare, consumare, acquistare.
Personalmente non mi sento nato per questo.