di Lucia Pugliese
Il precariato è ormai una realtà tristemente consolidata nel nostro paese, dove i lavoratori, giovani soprattutto (ma anche meno giovani), vagano senza prospettive tra stage e contratti a progetto. Le speranze sono poche, la retribuzione è scarsa (quando c’è). Se ne parla, forse fin troppo, senza trovare mai una soluzione: anzi sembra che una massa di lavoratori sfruttati e senza diritti faccia comodo alle istiuzioni e alle aziende. C’è anche chi, nel governo precedente, ha sciorinato saggezza da quattro soldi, affermando che i giovani devono accettare qualsiasi lavoro. Come se già non lo facessimo, come se già non fossimo sottomessi ad un sistema che ci vuole condannati a sgobbare senza garanzie,e soprattutto, senza contributi. Il problema non è solo che andremo in pensione vegliardi: è che non avremo proprio la pensione, o nel migliore dei casi, sarà misera.
Il cinema tende ad ignorare queste problematiche, fatta eccezione per qualche pellicola di pregio: ricordiamo “Tutta la vita davanti” di Virzì e “Riprendimi” di Anna Negri, entrambi del 2008. I precari sono magicamente invisibili al grande schermo, e quando ci sono, vengono trattati con una certa superficialità, come macchiette relegate in un call center.
In questo caso il cinema indipendente ci viene in aiuto, riuscendo dove il mainstream non arriva. La Ballata dei precari, progetto autoprodotto, su iniziativa della sociologa Silvia Lombardo, della psicologa Tiziana Capocaccia e dell’architetto – barman Giordano Cioccolini, a cui hanno collaborato 50 attori diplomati e un cospicuo numero di veri precari, è una commedia in sei episodi, che racconta, con una satira amara e corrosiva la situazione dei lavoratori italiani. Certo, si può fare di meglio: il film non tocca la politica, non affonda il colpo nella società e usa, come accade spesso in Italia, i toni del ridicolo per affrontare una problematica seria. Eppure, riesce a far riflettere, pone temi importanti: l’assurdità delle situazioni non appare poi così surreale alla luce di un’altrettanto folle realtà.
E così, c’è Mauro, che prende in ostaggio il suo datore di lavoro perché lo assuma, c’è Ilenia, che continua a frequentare Master su master, al punto che i genitori decidono di farla visitare da un medico e ancora, c’è Federico che ci racconta in musica le sue vicissitudini: è costretto ad un secondo lavoro per vivere decentemente.
“Farò il pagliaccio e almen si mangerà” sembra l’unica possibilità. E fare il pagliaccio in questo paese ha molti più significati di quello che può sembrare.
Poi ci sono Irene e Riccardo, che vogliono avere un figlio, ma il parto deve coincidere con le scadenze dei loro contratti da precari: una dottoressa, interpretata da Geppi Cucciari, propone di aiutarli con una sua bizzarra invenzione. E due anziani coniugi, decisi a farsi uccidere per lasciare l’assicurazione sulla vita a loro figlio: ma farsi ammazzare non è così facile, a meno che tu non lo chieda ad un precario disperato. Infine l’episodio che forse coglie al meglio i timori di una generazione, racconta di Matteo, Luca e Giulia, ormai anziani nel 2050, che si trovano a vivere per strada, senza una pensione. Incattiviti, non fanno che litigare: tra una baruffa e l’altra, pensano di trovare una speranza di riscatto che si rivelerà altrettanto degradante.
Il sito ufficiale del film riporta i quesiti alla base delle storie:
Che senso ha continuare a fare stage senza retribuzione?
La laurea può garantirci un lavoro dignitoso?
Che fine faranno i precari superati i 65 anni?
Quali sono i problemi delle donne ( delle famiglie) precarie?
Perché non trovando lavoro continuiamo a specializzarci con master e corsi di ogni genere?
I genitori sono davvero l’unico ammortizzatore sociale che corre in soccorso dei giovani italiani?
Quesiti per tutti noi, ma soprattutto, per chi ci governa. Da vedere.