domenica 4 dicembre 2011

La mia Italia


di Alessandro Famà

La mia Italia è un vortice di pulsioni interiori, cuori sotto compressori digitali amplificano il suono dei nostri tricolori, usiamo il viva voce, ci scambiamo l'aria. Mi serve per sentirmi in Africa, Palermo è troppo lontana. Riempio i bidoni, a Licata non c'è acqua corrente, la mafia se ne appropria, la vende, il sindaco si svende. I vicini sempre in spiaggia a lamentarsi del rumore delle onde grigie, studenti poveri alloggiano dentro ai casotti, costa meno che in città. Mi lavo al mare, fa bene all'asma, non vado in bagno perché sono timido. Che famiglia allevare? Che occhiali portare? D'estate fa caldo, i sussidi per dormire tranquilli, per tagliarci le sopracciglia unite, i capelli umidi, il sudore delle ascelle ci rende simili. Quaranta ore nei vagoni letto, a Milano cambio società.

A Colonia non sono, apro al postino, leggo i giornali, una lacrima sugli esteri, una croce sull'Italia. Sposto i satelliti, accendo il decoder, le carte truccate, coppe e spade, re e donne, ministri e puttane. Io ti amo, io ti esigo. Mi innamoro ogni volta che ascolto Rimmel. Vediamoci al teatro, sposiamoci in mezzo ai rifiuti di Napoli, lavoriamo nei campi dei pomodori saporiti insieme ai clandestini illegali, ai contratti addominali stracciati al primo giorno di lavoro, mai firmati, mai compilati, mai stampati. Siamo tutti abbronzati, siamo tutti Italiani, siamo tutti emigrati. Le mani come i libri, congiunzioni domenicali, non c'è niente da inculcare. La sveglia alle nove, genuflessioni: chi possiede l'oro, chi non fa peccati. Traffico di droga, finanzieri e cocaina esportata all'estero, preti divorziati sposano in divisa. Tifosi votano a destra per protesta, i semafori ignorano gli umori, gli errori. Abbiamo poco tempo per oltrepassare il verde delle bottiglie di plastica non riciclabili, deviare la pioggia sulle discariche chimiche, sui castelli di sabbia abusivi. «Non è stata colpanostra, adesso fate i seri.» Andate alle giostre, autoscontri per vibrare senza crepare, non provo dolori, non colgo rivoluzioni. Vestiamo bene, il mercato del giovedì ci rende ricchi, ci fa spendere spiccioli. Sempre in movimento sugli asfalti in crisi, piccoli calciatori sognano un futuro, i garage non aprono a nessuno. Le edicole distruggono foreste, bibliotecari assenti, il cinema mostra un film ogni tre mesi. Marinai che corrono a piedi scalzi, Sant'Angelo balla nei vicoli stretti, dai panni appesi sgocciolano le lacrime dei precari in fila, degli scienziati senza una lira.


Stasera cosa mangiamo? Una pizza fra gli scarichi, mi disseto in un sorso, inalo lo smog, contamino l'anima. Ci sono trentacinque gradi secondo le farmacie, le granite rinfrescano l'alito di chi vive di playback, cinquanta euro a serata divisi per quattro famiglie. Risparmiamo sui risparmi, le visite specialistiche, i dentisti, le ricariche dei telefonini. Le tastiere non suonano, le coppie non si sfiorano. Balli di gruppo sostituiscono tarantelle tradizionali. Ci sediamo sulle panchine mosaiche coperte da cartoni per non sporcarci il culo. Calpestiamo le aiuole delle ville pubbliche, mangiamo baccalà fritto o cotto non importa. Voglio uscire, voglio vedere le bancarelle marocchine. E i Rumeni a passeggiare, il sabato a passeggiare, a salire e a scendere dalle piazze dei pazzi, vetrine accecanti, famiglie forestiere si tengono per mano. Al porto un faro luminoso attrae imbarcazioni. Le rive sono state sgomberate, mazzette di cemento piantate come delle mine antiuomo: centri commerciali, commessi temporanei. Noi regaleremo le conchiglie estrapolate ai carcerati soffocati, ai malati psicopatici rinchiusi nei manicomi, ai migranti riportati nei campi di concentramento libici. Poi una visita al campo santo, mangiamo dolci alla crema e chili di pane, un piatto di pasta e salsiccia per i cani randagi. Le madonnine dormono sul comò e ci invitano a stare seri, le invochiamo quando troviamo un secondo per il nostro salvadanaio pieno di attimi inconsci. Quattro occhi distorti sui cieli che assorbono l'ansia di eventuali ritorni, assimilazioni disdette e poi assunte da chi della propria patria non c'ha più niente, oltre a un televisore ineloquente. Cervelli che vanno e restano e se restano contano da uno fino a zero e non intravedono oltreoceani e periferie piene di sculture, quadri, tappeti elettronici, musei olografici che raccontano le nostre storie, futuri lasciati scarfidire sui motori di ricerca, non siamo ancora pronti per uscire dai girotondi, medaglie agli eroi morti in pace o guerra, fatti quotidiani, barzellette ordinarie: TOGHE ROSSE, TANGENTOPOLI GOLPE GIUDIZIARIO, RIFORMA DELLA GIUSTIZIA EPOCALE, LEGGE BAVAGLIO, ELEZIONI ANTICIPATE, BUNGA BUNGA nei palazzi delle caste pensionate, contributi bruciati come il petrolio delle generazioni di mille euro sottoposte all'odio, l'amore vince sull'odio, cassa integrazione per gli operai della fiat, gli insegnanti disoccupati nelle classi affollate, le agende rosse nascoste, ritornano memorie di pianti e riscosse, la terra dei cachi, la terra dei limoni in fiore. Divido le cartine geografiche a mio piacimento, depilo gambe indistinte, dipingo emozioni finte, finite come le vacanze in Sicilia e gli amori consensuali, le amicizie sparse per il mondo e i messaggi archiviati dentro a un hard disk. I nonni salutano dal balcone, gli zii arrivano fino al cortile. Siamo veramente Italiani per un mese all'anno? Un rigetto, anticorpi globalizzati, non siete benvenuti, non siete mai nati. Al prossimo anno se Dio vuole, un sorriso per non piangere, la macchina parte, il cuore rimane.