giovedì 8 dicembre 2011

Vaticano e Ici, l'esclusivamente della discordia


di Francesco Napoletti
Arrivati alla resa dei conti, ci sono dubbi che vanno eliminati per potersi fare un'idea sulla questione del momento: la benedetta tassa sugli immobili del Vaticano. Quando i nodi vengono al pettine, ci si accorge che queste grandi polemiche nascono sempre e comunque dalle imprecisioni, più o meno volute, della politica.


Di recente, un'ondata di indignazione, particolare perché incoraggiata da una prospettiva di futuro tetra e anche perché avente un appoggio incredibilmente trasversale, sta portando alla luce talune verità scomode per la Santa Sede. Quanto effettivamente scomode lo vedremo tra poco.


Intanto, riferendoci alla sola Capitale, possiamo certificare l'esistenza di almeno 23 mila tra terreni e fabbricati sotto la gestione della Santa Sede. La situazione non è trasparente, tanto che la Ue sta indagando sull'esenzione-Ici per le no profit e sullo sconto del 50% sull'Ires per associazioni di assistenza e beneficenza. L'ipotesi è che tali realtà vengano utilizzate effettivamente a fini di lucro, con annessa evasione delle dovute tasse.


Il valore dei beni complessivi in esame è incalcolabile, così come il loro numero d'altronde. Per questo motivo è bene partire dai pochi dati certi. Ad esempio dal 2005 una serie di indagini a Roma sugli edifici ecclesiastici ha portato al recupero di 9,3 milioni di tasse effettivamente evase. Una sentenza della Cassazione ha obbligato una clinica delle suore di La Spezia a versare 38.327 euro di Ici; a Cagliari le cartelle esattoriali agli enti religiosi fioccano e sono assai nutrite. Detto ciò, qual'è il pomo della discordia per cui non si sa se è vero cosa?


L'Anci ha stimato un'Ici vaticana potenziale di 400-700 milioni di euro; per l'Associazione ricerca e sviluppo sociale (Ares) si tratta di 2,2 miliardi, mentre il presidente della Commissione attuazione del federalismo fiscale parla di soli 70-80 milioni di "patrimonio ecclesiastico esclusivamente commerciale". Ed eccolo qui il problema! L'avverbio "esclusivamente" ha una storia affascinante ed è la chiave di tutta questa confusione, di tutti questi bisticci tra laici e autorità ecclesiastiche: nel 2005 il filocattolico Berlusconi aveva esentato dall'imposta ogni ente no-profit (anche laici). Nella sua breve vita, il Governo Prodi (di per sé a sua volta filocattolico) limitò poi tale beneficio agli edifici "che non hanno esclusivamente natura commerciale".


Ordunque, come si fa a stabilire quali edifici hanno esclusivamente natura commerciale? Per capire, se questo comma venisse preso alla lettera, un prete potrebbe allestire un'edicola dentro una basilica e non pagare alcuna tassa sulla sua attività. Infatti il luogo non avrebbe finalità esclusivamente commerciali, ma sarebbe anche un luogo di culto. Certo, si potrebbe interpretare la frase a proprio piacimento, dopotutto nessun luogo è, formalmente parlando, esclusivamente commerciale... Infatti può sempre avere altri attributi quali "religioso", "di culto", "carino", "pacchiano" ecc.


La soluzione più conforme alla giustizia sociale potrebbe essere l'eliminazione di quel poco sobrio "esclusivamente", che serve solo a gettare fumo negli occhi di tutti e una certa quantità di moneta alle casse dello Ior. Quindi qualcuno faccia un po' d'ordine, perché le ambiguità legislative sono come il sonno della ragione: generano mostri.