lunedì 19 dicembre 2011

Fine del Welfare State


di Rosario Grillo

La simbiosi individuo-Stato è stata teorizzata con grande effetto già nell’antichità dal grande Aristotele, che nella sua opera “ La Politica “ precisa : “ Questa la peculiarità dell’uomo nei confronti di tutti gli altri animali, d’essere il solo a percepire il bene e il male, il giusto e l’ingiusto e il resto. Avere in comune tutto questo costituisce la famiglia e lo Stato. Per natura, dunque, lo Stato è prima della famiglia e di ciascuno di noi , poiché per la sua necessità il tutt’uno (olon ) è prima delle parti “.

La riflessione di Aristotele è incentrata sul concetto di entelechia , che spiegato in maniera semplice comporta il portare a compimento ( fine ) la natura universale che si ha ( si è – essenza - ).

Per me, dopo che la Storia ha compiuto un tragitto di due millenni ed oltre ( IV sec. A.C./1900 d.C. ), si può pensare che il Welfare State ( Stato sociale, letteralmente Stato del benessere ) discenda coerentemente da questo fondamento teorico ed anzi ne porti a compimento la sostanza.

Dico questo, e cerco di argomentarlo, nel momento stesso in cui il Welfare State viene criticato da tutte le parti e sta per essere abbandonato perché considerato bardatura insostenibile – finanziariamente – degli Stati odierni, sottoposti ai durissimi colpi della crisi mondiale. Bisogna innanzitutto accennare che già il neoliberismo imperante negli anni ’80 del XX secolo aveva contestato e messo a dura prova il Welfare State. Poi ha preso il volo la globalizzazione e con essa, lasciata senza regole, sono giunte le condizioni contestuali e teoriche più aggressive e reiettive.

Il Welfare State, come dice la dizione Stato del benessere, mette in opera il fine del benessere, connaturato, come abbiamo letto in Aristotele, agli individui umani aggregati in una comunità-Stato. Benessere, difatti,si deve intendere non come stretta ricerca della felicità materiale, ma come integrale realizzazione della persona sociale , completa di dimensione economica e di dimensione spirituale ( culturale ).

Un po’ di riflessione permette di verificare nelle politiche di intervento del Welfare la richiesta del “ tempo libero “, delle ferie retribuite, della fruizione sociale della cultura ecc. Ci si porta lontano dal Welfare strumentalizzato da Bismarck ( negli anni ‘70/80 del XIX secolo ) per fini antisocialisti, o dalla manovra puramente economicista in chiave antirecessiva avviata da Beveridge prima e dispiegata poi nelle necessità del grande crollo del 1929 e della ricostruzione postbellica ( 1945-60 ).

Alla stregua da me indicata il Welfare appare come il trionfo della partecipazione corale, dell’integrazione sociale: un coronamento dell’azione riformatrice delle socialdemocrazie.

Oggi, invece, inopinatamente, sentiamo ripetere – in Italia in ispecie – che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, come irresponsabili cicale che hanno dissipato tutte le proprie risorse.

Risorse di chi ? Per chi ?

Ieri, da un industriale che si atteggia ad innovatore, ho sentito dire che lo sciupio in Italia è addirittura iniziato nel 1970. ( Per inciso metterei sotto i suoi occhi i reportage giornalistici, coordinati da Indro Montanelli e pubblicati con il titolo Italia ’70- la carta delle regioni- Mondadori, per smentire la sua opinione ). Altre prove addotte da lui e/o dall’ex presidente del Consiglio indicano lo spreco nella proprietà diffusa delle case e nella sostenuta frequentazione delle sale dei cinema e dei teatri ( sic ! ).

Substrato di queste denunce è la pretesa delle categorie imprenditoriali di rivendicare per sé la direzione di ogni azione economica – e qui economica ha largo spettro di significato – di qualsivoglia soggetto sociale.

Corollario di esse la teoria secondo cui i capitali ( i beni ) vanno prima riservati all’imprenditoria, che è l’unica legittimata a decidere il come e il quando del loro uso/impiego – logicamente secondo l’abitudine inveterata di : privatizzare i profitti e socializzare le perdite .

Invece, la notevole virtù del risparmio, propria del popolo italiano, la laboriosità dello stesso che ha consentito, dopo le distruzioni del secondo conflitto mondiale, l’elevazione del Paese al rango di settima potenza industriale del mondo, smentiscono di fatto queste pretese e si proiettano nell’agone politico perché diventino orgoglio sociale e piattaforma di rinascita.

Una rinascita, che va attentamente meditata ed elaborata per evitare di ricadere succubi delle sirene del populismo, provenga da Berlusconi o da Bossi o da Di Pietro.