lunedì 14 novembre 2011

Il prezzo del progresso


di Luca Quagliani

Svegliarsi a causa di un boato assordante, non realizzare cosa stia succedendo e sentire, in lontananza, le sirene degli allarmi. Uscire di corsa fuori di casa e notare, a pochi km di distanza, delle fiamme innalzarsi altissime nel cielo; osservare una strana nuvola propagarsi nell’aria e non accorgersi della gravità della situazione, storditi come si è dal caos generale: sentori che preannunciano l’inizio della fine.

Probabilmente tutto ciò e molto altro ancora avranno vissuto gli abitanti delle zone circostanti la centrale nucleare di Chernobyl. Stupite di trovarsi di fronte ad una situazione talmente assurda da non poter nemmeno essere immaginata. Eppure avvenne: il 26 aprile 1986, alle ore 1:23:44 il reattore n°4 esplose, rilasciando all’esterno della struttura immense quantità di materiale radioattivo e costringendo all’evacuazione circa 336.000 persone, per un totale di 76 luoghi tra città e villaggi. La zona più colpita fu il centro abitato di Pripjat che con i suoi 47 mila abitanti costituiva il paradiso dell’Ucraina degli anni ’80, grazie anche alle sue strutture innovative e ad un discreto tenore di vita. Dopo 36 ore dalla catastrofe vennero trasferite circa 116 mila persone. Tutto è rimasto come prima, nessuna struttura è stata sensibilmente danneggiata, solo una gran confusione di oggetti buttati per terra; il tempo di prendere pochi effetti personali e fuggire il più lontano possibile. In compenso, la città è morta, senza più nessuno ad abitarla e, soprattutto, ad animarla. Una realtà sconvolgente, una situazione tragica e triste: Pripjat divenne una città fantasma, e con lei tutta la “Zona di alienazione”; il territorio, cioè, compreso nel raggio di 30 km dalla centrale. Una lunga sbarra di ferro con un cartello blocca l’ingresso alla zona: “Stop”. Decine di poliziotti sorvegliano che nessuno entri nella zona contaminata e la presidiano giorno e notte anche per sventare i già numerosi tentativi di sciacallaggio. Le radiazioni si propagarono con una velocità ed una quantità sconcertante: quest’ultima era 1 miliardo di volte superiore al limite standard. Coloro ai quali andò meglio riportarono qualche “insignificante” tumore... Questi ultimi morirono nel giro di un mese dall’avvenimento.

La contaminazione, inoltre, si levò nell’aria raggiungendola bellezza di 14 Paesi europei e si infiltrò nelle falde acquifere, andando ad infettare i corsi di due importanti fiumi che sfociano nel Mar Nero: 30 milioni di persone usufruiscono di quell’acqua ancora oggi. Numerose ricerche della prestigiosa associazione ambientalista e pacifista Greenpeace, stimarono un numero di vittime senza precedenti: 65 morti immediati (coloro che si trovavano all’interno della centrale al momento dell’esplosione) e tutti coloro che intervennero per placare l’incendio; 4 mila nei mesi successivi per tumori, cancri, leucemie e altre irreversibili malattie mortali; 6 milioni nell’arco di settant’anni dalla catastrofe per altrettante malattie tutte cagionate da questo disastro. Solo Dio sa cosa vuol dire giocare con il DNA umano e cosa possa venirne fuori. Meglio evitare qualunque accenno in merito. I politici odierni non comprendono cosa stanno facendo; continuano ad investire sul nucleare: in Europa ci sono attualmente la bellezza di 197 centrali nucleari (più di un quarto delle quali di proprietà francese) più decine di altre in costruzione. La speculazione delle multinazionali riguardo questa tematica è arrivata all’inverosimile. Non ci interessa quali altre fonti di energia potranno sostenere il nostro fabbisogno: non è bastata questa catastrofe per farvi cambiare idea? Allora vuol dire che presto ne avremo un’altra.

Ma questa volta non ci sarà nessuno a ricominciare tutto daccapo.

Gli dissero che sarebbero tornati alle loro case e che l’incidente sarebbe stato presto riparato, l’omertà si stese sull’URSS; nella lavagna di un asilo della città di Pripjat, invece, qualcuno scrisse, nel lontano 28 aprile 1986: “Non ritorneremo. Addio”.