domenica 27 novembre 2011

Alemanno: un predatore dell’arca perduta


di Ketty Iannantuono
Il 24 novembre scorso, il sindaco di Roma Gianni Alemanno è intervenuto all'assemblea dell'ACER (Associazione Romana Costruttori), rilasciando dichiarazioni che, di primo acchito, a me, studentessa di archeologia, hanno fatto fare un balzo dalla sedia.
“Abbiamo fatto i salti mortali per realizzare Ponte della Scafa – ha detto Alemanno – ora siamo fermi da diversi mesi perché è stata trovata una nave romana. Stanno là a contemplarsela da mesi, per fare cosa? Portarla in un museo dove mi pare ci siano altre 14 navi romane, che per altro nessuno visita”.

Una nave romana: cosa volete che conti di fronte al progetto di un ponte che costerà 25 milioni di euro? Cosa volete che valga di fronte alle esigenze del traffico della capitale?
Eppure non sono solo gli archeologi a non essere d’accordo. Qualche mese fa l’ex ministro dei Beni culturali Giancarlo Galan aveva definito la scoperta come: “Un ritrovamento da brivido, un grande risultato dell'archeologia preventiva se si pensa a quante cose come questa sono andate disperse. Un'operazione complessa e importante che ci dice molte cose sulla linea di costa e su quello che succedeva circa duemila anni fa”. Incredibile a dirsi ma sono davvero parole di Galan!

Ma torniamo ad Alemanno, il quale sulla questione ha aggiunto: “Ma è possibile che ogni volta che noi troviamo ogni qualsiasi reperto diventa un elemento di contenzioso infinito e interminabile, per cui vanno avanti per mesi con ricerche archeologiche sempre più assurde e complicate? Prendiamo atto che ci siano alcune presenze ma distinguiamo i grandi ritrovamenti e diamo una svolta. Credo che dal governo debbano arrivare tempi certi per affrontare i contenziosi e l'aspetto di ritrovamenti di beni archeologici. E' necessaria una nuova normativa che metta insieme il problema delle opere pubbliche, dei sondaggi archeologici e del contenzioso. Non è possibile - ha concluso - che qualsiasi opera di edilizia o urbanistica, anche se di somma urgenza, venga sempre bloccata da lentezze burocratiche e contenziosi a carattere archeologico”.

Superato il dolore del pugno allo stomaco che queste parole mi avevano procurato e digerito l’ovvio sbigottimento generale dei miei colleghi d’università, degli intellettuali, delle vestali dell’articolo 9 e dei salotti buoni d’Italia, ho provato a riflettere a mente fredda sulla questione. Alemanno ha completamente torto?

Per alcuni versi sì, non c’è dubbio. Il sindaco dell’Urbe non può declassare il lavoro – peraltro piuttosto duro – degli archeologi, ricorrendo ad un’immagine fumettistica dell’intellettuale cavilloso e autoreferenziale, sostanzialmente noioso, polveroso ed inutile. Un Indiana Jones appesantito dagli anni e sbiadito dal tempo.

Le ricerche archeologiche ad Alemanno sembrano sempre più assurde e complicate. Non sarà forse perché non le comprende? Ma se l’archeologia non è compresa ed è percepita solo come costoso e pretenzioso orpello, la responsabilità, in parte, è dell’archeologia stessa che spesso non riesce a trovare i modi per comunicare con il grande pubblico. Spetta all’archeologia, infatti, il compito di informare, perfino i barbari Alemanni.


Il sindaco, continuando con il suo aplomb quasi britannico, pone poi il problema della destinazione dei rinvenimenti. Nessuno visita i nostri musei. Questo, purtroppo, è un dato reale: i musei italiani rischiano il collasso. Dati di ottobre del Ministero per i Beni culturali rivelano un crollo delle presenze straniere in tutti i musei (anche i visitatori italiani – già pochi – sono in calo). Inoltre si assiste ad una drastica trasformazione del pubblico che diventa sempre più anziano: la crisi allontana i giovani dalla cultura. Saranno i continui tagli e le misure anti-crisi a risolvere questa situazione? Chissà se il sindaco di Roma, città che vive di turismo, si è posto il problema…

Altra questione urgente posta – in modo rozzo e populista - è quella del bisogno di una prevenzione del rischio archeologico che sia efficace; il bisogno di “tempi certi”.

La risposta, secondo lui, sta in una “nuova normativa che metta insieme il problema delle opere pubbliche, dei sondaggi archeologici e del contenzioso”. Peccato che questa normativa esista già (è contenuta, infatti, negli articoli 95 e 96 del “Nuovo codice degli appalti”, i quali si occupano della verifica preventiva dell’interesse archeologico). Magari rendere attive le norme esistenti o –addirittura - ratificare la convenzione di Malta, portando la prevenzione italiana ad un livello paritario a quello degli altri Paesi firmatari, potrebbe rivelarsi utile.

Al di là delle normative (e del caso specifico ove, la straordinarietà della scoperta, mette in fuori gioco molti dubbi), bisognerebbe forse ripensare integralmente al ruolo sociale dell’archeologia. è giusto pretendere di conservare tutto? Ed è possibile?

A tali interrogativi ontologici gli archeologi sono chiamati a rispondere.

Il rischio più immediato, però, in una società così colpita dall’ubriacatura dello sviluppo come lo è la nostra, dove la sigla PIL è diventata sinonimo di benessere e la “crescita” è percepita quale obiettivo unico da raggiungere, è quello di immolare al “progresso” anche la nostra memoria storica.

E, allora, non resterebbe da chiedersi: quale identità ci resta?