giovedì 15 dicembre 2011

Morire di carcere

di Ketty Iannantuono

Nella notte tra lunedì 12 e martedì 13 dicembre, nel carcere circondariale di Buoncammino, a Cagliari, un ragazzo algerino, Feres Chabachb, si è tolto la vita. A meno di 24 ore dalla visita del ministro di Grazia e Giustizia e a una settimana di distanza da un altro suicidio avvenuto nello stesso carcere. Solo ieri, infatti, il neo ministro Paola Severino aveva scelto di dare l’avvio ad una serie di visite ufficiali alle carceri d’Italia dal penitenziario cagliaritano “per mostrare la vicinanza e l'attenzione dello Stato ai detenuti e alle famiglie di chi si è suicidato in carcere”. Aveva scelto Cagliari perché il 5 dicembre scorso qui si era suicidata Monia Bellofiore, una donna cagliaritana di 39 anni. “Un incontro che mi ha commosso” aveva raccontato il ministro ai giornalisti, “perché le detenute, hanno mostrato grande umanità”. A Cagliari, il ministro della Giustizia aveva parlato anche del fenomeno dei suicidi in carcere: “Il suicidio di un detenuto rappresenta un fallimento per tutta la società, per la famiglia, per la scuola, per il carcere e le istituzioni”.


Due suicidi in meno di dieci giorni. Perché questo penitenziario è così colpito da questo fenomeno?
Nel carcere di Buoncammino di posti ce ne sarebbero 324 ma i reclusi sono invece 540 ed inoltre ci sono 54 agenti di polizia penitenziaria in meno rispetto all’organico definito in sede ministeriale. Uno scenario preoccupante che registra una tra le più gravi situazione di sovraffollamento carcerario -il sovraffollamento, infatti, in questo penitenziario è addirittura al 66,7 %. A questo si aggiungono le dichiarazioni di chi lavora lì, guardie penitenziarie o chi presta azioni di volontariato: “Pochi educatori ma il problema resta sempre il sovraffollamento, e poi la tossicodipendenza che sfiora il 90%”, dice il cappellano- padre Massimiliano Sira, presente alla visita del ministro Paola Severino. La condizione delle carceri è “tra le più esplosive” scrivono i direttori dei penitenziari aderenti al sindacato Sidipe al ministro Severino, “se deflagrasse le conseguenze sarebbero devastanti”. Di “un possibile precipitare della situazione” parla anche la Uil Penitenziari. L’associazione Antigone denuncia una “tragedia infinita”, riferendosi a quella dei suicidi in carcere, che ha “un’indiscussa concausa nelle condizioni disperate e indegne di vita cui i detenuti sono costretti” e chiede quindi che si ricorra a un decreto legge per varare d'urgenza provvedimenti che consentano di incidere subito sul sovraffollamento L’ex ministro Umberto Veronesi ha dichiarato al giornale Oggi che “Riempire le prigioni è una perversione del potere dello Stato” segnalando anche come per chi vive in carcere ci sia una probabilità 30 volte superiore alla media di contrarre la tubercolosi.

Secondo lo studio Suicidi in carcere: confronto statistico tra l’Italia, i Paesi europei e gli Stati Uniti elaborato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia, del Consiglio d’Europa, e dell’U.S. Department of Justice - Bureau of Justice Statistics, in alcuni Paesi, che hanno un numero di detenuti paragonabile a quello dell’Italia, come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania, avvengono in media più suicidi rispetto a quelli che si registrano nelle nostre carceri. Tuttavia per un confronto efficace tra i dati dei vari paesi bisognerebbe prendere in considerazione anche la frequenza dei suicidi nella popolazione libera. L’Istituto Nazionale francese di Studi Demografici (INED), con la ricerca “Suicide en prison: la France comparée à ses voisins européens”, pubblicata a dicembre 2009, ha considerato la frequenza di suicidi tra i cittadini liberi, maschi, di età compresa tra 15 a 49 anni (cioè con caratteristiche simili a quelle della gran parte della popolazione detenuta) e ha calcolato lo “scarto” esistente con la frequenza dei suicidi in carcere. Tra i Paesi considerati, l’Italia è quello con lo scarto più alto, con un rapporto da 1,2 a 9,9. In Italia, quindi, nelle carceri i suicidi sono circa 9 volte più frequenti che fuori, in Gran Bretagna, invece, sono 5 volte più frequenti, in Francia 3 volte più frequenti, in Germania e in Belgio “solo” 2 volte più frequenti e in Finlandia, addirittura, il tasso di suicidio è lo stesso dentro e fuori dalle carceri.


L’Italia purtroppo detiene il “record” del tasso di sovraffollamento penitenziario in Europa e, allo stesso tempo, presenta lo “scarto” maggiore tra suicidi dentro e fuori dal carcere: difficile pensare che non esista un rapporto tra affollamento delle celle, riduzione della vivibilità ed elevato livello di suicidi.

Affollamento significa condizioni di vita peggiori: mancanza di spazi di movimento, di intimità, di
igiene di salute.
Negli ultimi dieci anni (2000-2009) i detenuti suicidi nelle carceri italiane sono stati 568, mentre nel decennio 1960-69 erano stati 100, con una popolazione detenuta che era circa la metà dell’attuale: in termini percentuali la frequenza dei suicidi è quindi aumentata del 300%.

Un aspetto importante da sottolineare è che oggi, a differenza che in passato, quando i detenuti erano soprattutto “criminali di professione”, buona parte della popolazione carceraria è costituita da persone provenienti dall’emarginazione sociale (immigrati, tossicodipendenti, malati mentali), spesso individui psichicamente fragili e privi delle risorse caratteriali necessarie per sopravvivere al carcere.

Secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere (sostenuto da associazioni quali “Il Detenuto Ignoto”, “Antigone”, “A Buon Diritto”, “Radiocarcere” e “Ristretti Orizzonti”), la maggior parte dei suicidi che avvengono in cella non sono legati alla disperazione di chi sa di dover passare molti anni in carcere, ma la loro causa è piuttosto ascrivibile all’angoscia di un presente che spesso significa sovraffollamento pauroso, assenza di attività di alcun genere, negazione di ogni dignità umana.
Tutto ciò costituisce una chiara violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, che proibisce di sottoporre i detenuti a “trattamenti inumani e degradanti”.

L’Europa è dello stesso parere. Già nel luglio 2009, il verdetto sul caso Sulejmanovic stabiliva che un detenuto deve avere a disposizione almeno 3,5 mq di spazio e deve poter trascorrere fuori dalla cella almeno 6 ore al giorno. In caso contrario è vittima di “trattamento inumano e degradante” e ha diritto a un risarcimento economico per il danno subito. Oggi quasi nessun carcere italiano rispetta questi criteri minimi. In celle di 6 mq ci sono 3 detenuti, in quelle da 12 mq anche 10 detenuti. Le “ore d’aria” generalmente sono 4 al giorno (ma negli istituti più sovraffollati queste si riducono ancora).
Il problema delle carceri italiane, quindi, è urgente.
Resta da chiedersi per quale motivo l’opinione pubblica non resti colpita da questi dati. Probabilmente una parte di colpa ce l’ha anche l’informazione giornalistica.

Sfogli una rassegna stampa sulle carceri si trovano infatti molti articoli che sembrano note contabili: ci sono solo numeri. Numeri di detenuti, numeri di quelli che sarebbero di troppo rispetto alla capienza stabilita della struttura presa in considerazione, numeri di stranieri e numeri di tossicodipendenti, numeri di autolesionisti e, infine, numeri di morti suicidi.


Tutte queste cifre ricordano le cronache di guerra: dimensioni degli eserciti, loro composizione e, infine, il bilancio di morti e feriti. Una propaganda bellica che si cura di far apparire i nemici come semplici quantità. Il carcere, però, non dovrebbe essere un luogo punitivo, un luogo nel quale rinchiudere dei nemici. Il carcere dovrebbe essere concepito come una struttura rieducativa per chi ha commesso un errore ma non deve per questo essere vessato e venir privato della propria umanità.


Nel carcere la “guerra” è terminata e bisogna piuttosto pensare ad impedire sì al detenuto di delinquere ancora ma –e forse soprattutto- bisogna pensare a come reinserire il detenuto nella società. Proprio per questo i detenuti non possono e non devono essere ricordati solo attraverso i numeri e le statistiche.


Feres Chabachb si è ucciso appena prima di mezzanotte di lunedì, il giorno della visita del ministro della Giustizia Severino, con un asciugamano appeso alle sbarre della finestra in una struttura carceraria dove passava le sue giornate assistito da un altro detenuto pagato apposta per farlo dall’istituzione carceraria e dove gli agenti penitenziari lo tenevano sotto sorveglianza stretta perché ritenuto un soggetto con problemi di adattamento e “a rischio suicidio”. Il ragazzo algerino –aveva solo 25 anni- era arrivato in Sardegna ad ottobre con un barcone proveniente dalla costa africana. Al centro di accoglienza l’avevano identificato: a suo carico c’era un ordine di carcerazione per una serie di piccoli reati commessi a Genova a partire dal 2007. Dopo esser stato espulso, aveva tentato nuovamente di tornare in Italia ed era finito sulle coste sarde, al centro di accoglienza di Elmas. Qui era arrivato quindi l’ordine di carcerazione e così l’11 novembre scorso gli agenti l’avevano accompagnato in carcere. Comprendeva solo qualche parola d’italiano. Era solo dentro il carcere ma anche fuori: dalla famiglia non riceveva notizie, nessuno chiedeva di lui, i colloqui passavano senza che il suo nome venisse pronunciato dagli agenti. Avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2013.