lunedì 26 dicembre 2011

In memoria di un grande giornalista con le sue debolezze


di Giulio Pica

Conoscevo Giorgio Bocca fin dalla metà degli anni ’70, quando ancora quindicenne, iniziai ad interessarmi con passione ai turbamenti che attraversavano la società italiana dell’epoca: dalle trame nere alle azioni delle brigate rosse, dal protagonismo irridente ed ironico degli indiani metropolitani alla prassi, molto più dura e cupa, di autonomia operaia.

Il primo libro che lessi, con una grande avidità di conoscenza, fu il suo : “Il terrorismo italiano. 1970-78”, un’analisi acuta del fenomeno, comprendente anche un ritratto psicologico di Renato Curcio e Mara Cagol, descritti come il tipico prodotto di una socializzazione improntata ad un cattolicesimo radicale sfociato in un’altrettanta fideistica adesione al progetto marxista-leninista di costruzione della società che sarebbe sorta dalle ceneri del capitalismo.

Giorgio Bocca scriveva con una chiarezza esemplare: non scadeva mai nella retorica, nel vuoto sentimentalismo, non concedeva nulla alla follia utopistica dei brigatisti riconoscendo, nel contempo, le grandi responsabilità che la politica della Dc, dal dopo-guerra in poi, aveva nel non aver saputo governare un periodo di crescita economica convulsa e di trasformazioni socio-culturali nel cui ambito andava ricercata l’origine della radicalizzazione di una certa area del movimento comunista.

Ricordo la lucidità con la quale sottolineava la diversità della prassi di autonomia operaia rispetto al furore cieco delle brigate rosse o di prima linea, il rigore che gli consentiva di non accodarsi pedissequamente alla vulgata generale dell’epoca che, sull’onda del teorema Calogero, tendeva ad assimilare frettolosamente il movimento del ’77 alle formazioni armate.

Il coraggio e l’orgoglio di partigiano combattente gli permetteva di criticare con la stessa durezza i maneggi e le nefandezze delle classi dirigenti , il servilismo di tanti suoi colleghi giornalisti, così come le degenerazione maoista del movimento studentesco.

Arrivarono poi le sue grandi inchieste sui mali del Sud, sulle collusioni tra classe politica e criminalità organizzata, la sua sferzante analisi di quell’area grigia composta da clientelismo, spregiudicato affarismo, gestione della cosa pubblica al di fuori della legalità che affliggeva ed affligge il Sud e probabilmente tutto il Paese.

Il trionfo del craxismo fu da lui giustamente stigmatizzato come l’inizio di quel lungo periodo di degenerazione della politica che avrebbe portato a sbarazzarsi dell’ultimo residuo di moralità, fino ad ostentare consapevolmente il disprezzo dell’etica e l’adozione di un’idea della politica come esercizio puro e spudorato del potere per il potere.

Gli anni bui e volgari del berlusconismo non potevano che destare in lui un profondo disprezzo che si sarebbe tramutato, nei suoi ultimi mesi di vita, in un senso di nausea per lo spettacolo indecente al quale lui e noi siamo stati costretti ad assistere.

La sua coerenza non cedeva mai all’esigenza di essere politically correct: durante un’intervista a “Le invasioni barbariche” , a Daria Bignardi che gli chiedeva un’opinione su Vespa, rispose più o meno così : “Giornalista ? macchè è un servo di regime”.

In quest’Italia priva ormai di spina dorsale, ci mancheranno il coraggio e la fierezza di un grande giornalista, temprato dalle asprezze della Resistenza partigiana, curioso e attento all’evoluzione della società, nauseato da una politica ridotta a bordello.

L’unica debolezza, a mio avviso, è stata la durezza gratuita, dettata forse da una conoscenza viziata dal pregiudizio, con la quale ha descritto Napoli ed i napoletani che, certo, non corrispondono alla plebe incolta e feroce cara ad una certa iconografia positivista e ottocentesca.