mercoledì 16 novembre 2011

Termini Imerese: sedotta e abbandonata


di Ketty Iannantuono

Il 23 novembre sarà l'ultimo giorno di produzione per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, ultimo giorno dopo 41 anni di attività. Poi per le tute blu siciliane, fino alla fine dell’anno, non ci sarà che la cassa integrazione.

La decisione di fermare la produzione, già da tempo annunciata, è stata definitivamente confermata appena prima dell'incontro tra sindacati, Invitalia e Dr Motor che si svolgerà oggi a Roma. Per Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom-Cgil, «L'azienda non aspetta neanche la conclusione del tavolo e neanche la data del 31 dicembre. Questo rischia di esacerbare gli animi in una trattativa che è ancora in corso e che speriamo il 16 novembre si chiuderà positivamente». Se l’intesa venisse siglata, l’azienda guidata da Massimo Di Risio subentrerebbe alla Fiat nello stabilimento siciliano dal gennaio 2012. I sindacati però, Fiom in testa, esigono chiarimenti sull'impegno del gruppo molisano e, soprattutto, richiedono garanzie per gli operai. Intanto tra i lavoratori, e in particolare tra quelli delle aziende dell'indotto, il sentimento dominante è l’inquietudine. Inevitabile per chi vede il proprio futuro con fatale incertezza.

Facciamo un passo indietro, al 1970. Siamo in Sicilia, nel suggestivo golfo tra Palermo e Cefalù: nasce lo stabilimento di Termini Imerese. Se la decisione di destinare allo sviluppo industriale un’area chiaramente vocata al turismo o all’agricoltura sembra quanto meno discutibile, quando si viene a conoscenza che la Regione Sicilia all’epoca erogò al gruppo Fiat un consistente finanziamento per ottenerne la localizzazione nel territorio, diventa difficile non pensare allo scambio di favori tra la politica locale e il gruppo imprenditoriale. Nel ’70 venne creata la Sicilfiat, una società a partecipazione regionale di cui la Fiat deteneva il pacchetto di maggioranza con il 60% delle azioni. Nel 1977, poi, l’azienda automobilistica acquisì la totalità delle azioni. Da allora la fabbrica ha sempre prodotto un solo modello, legando le proprie performance alla richiesta della vettura sul mercato: la vecchia 500, la 126, la Panda, la Punto (condivisa con Melfi e Mirafiori) e, per ultima, la Lancia Ypsilon. La crisi economica, inoltre, in questi ultimi anni ha dimezzato la produzione: a fronte di una capacità effettiva di assemblaggio di 100-120mila unità, oggi, dalle porte di Termini, escono solamente 50-60mila auto.
Uno dei problemi più gravi della fabbrica è, poi, la scarsa presenza dell’indotto nel territorio. Buona parte dei componenti arriva in Sicilia da altre fabbriche del Paese, cosa che rende più costoso produrre qui che non altrove. Alla luce di tutto questo, Sergio Marchionne, dopo aver argomentato –già nel 2009- che «il mondo è cambiato» e che «la Fiat non può pensare di difendere tutto e di tenere tutti gli stabilimenti aperti» poiché «non è fattibile, è fuori di ogni logica industriale», decide di chiudere.

Ora resta solo da chiedersi il perché quella politica locale che ha così fortemente voluto la Fiat sul territorio –arrivando sino a finanziarla- ha poi sempre ritardato gli investimenti per potenziare le infrastrutture e agevolare la presenza in loco di aziende della componentistica. Rimane, scomoda, la domanda circa l’opportunità di fare i Termitani operai per poi lasciarli diventare “anti-economici”. Resta lì la questione etica di un gruppo imprenditoriale che sostiene di muoversi in un “libero mercato” e poi accetta sovvenzioni statali. E rimane –speriamo non troppo a lungo a casa- la forza lavoro dello stabilimento, attualmente pari a circa 2.200 persone.