di Lucia Pugliese
Da un lato, vi sono partiti che si rifanno direttamente alla religione: non solo Giustizia e Libertà, braccio politico dei Fratelli Musulmani, ma anche il partito estremista islamico dei Salafiti. Un secondo fronte è costituito da partiti filo –occidentali, guidati da esponenti formatisi per la maggioranza all’estero. Infine, vi sono le forze politiche di ispirazione comunista, e i partiti nati per l’iniziativa dei giovani protagonisti della rivoluzione.
Tuttavia, forse, il problema non è tanto chi vincerà, ma come. Davvero il risultato di queste elezioni darà voce al paese? il complicato sistema elettorale elaborato dal Consiglio che prevede la separazione degli eletti nella Camera Bassa e nella Camera Alta, rende queste elezioni egiziane difficili da controllare e quindi, forse, più facilmente manipolabili.
E così, con il peso dei 40 morti dei giorni scorsi, in piazza Tahrir prosegue l’occupazione. Ciò che chiedono i manifestanti è un governo di salvezza nazionale, svincolato dal Consiglio supremo delle forze armate che ora di fatto governa il paese. Il premier designato, Kamal al Ganzouli (78 anni), è più deriso che odiato, tra i manifestanti: un vecchio, si dice, un uomo legato a Mubarak. Si resiste invece, perché venga istituito un esecutivo che metta in atto i principi della rivoluzione e che risani il paese, economicamente e socialmente. Uno dei nomi che circolano per la guida di questo esecutivo è quello di Mohamed El Baradei, diplomatico egiziano, ex ambasciatore all’Onu, e premio nobel per la pace in quanto presidente dell’agenzia internazionale per l’energia atomica. Ciò che emerge però, dalle interviste e dalle notizie che arrivano in Occidente, è che più che un nome, i ragazzi di Piazza Tahrir vogliano fatti.