di Paola Totaro
Una quasi buona notizia quella che ci giunge oggi. Occorrerà lavorare di più a causa dell’allungamento dell’età minima per andare in pensione, ma si percepirà di più di quanto si fosse immaginato fino ad ora. L’importo della pensione potrà essere pari al 70% dell’ultimo stipendio per un lavoratore dipendente e del 57% per un parasubordinato.
Questo è l’effetto del metodo di calcolo contributivo applicabile a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995. Più anni si lavora più contributi si versa e quindi più si prende.
E’ Enrico Marro del Corriere della Sera che ci spiega qual è il corretto modo di applicare la norma. Si è sempre fatto riferimento al sistema contributivo come una mannaia per le pensioni e che le livellasse a circa la metà dell’ultimo stipendio. Ma questo era vero con l’età pensionabile sui 58-60 anni per quella di anzianità (con 35 anni di contributi) e 65 per quella di vecchiaia, 60 per le donne.
Il giovane invece, non potrà andare in pensione prima di aver raggiunto 65 anni e 3 mesi se avrà i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata, senza differenze tra uomini e donne. Altrimenti dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi. Sarà infatti questa l’età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti), aumento a 65 anni dell’età di vecchiaia per le donne e adeguamento automatico ogni tre anni dell’età pensionabile alla speranza di vita.
Ricapitolando. Le pensioni di vecchiaia avranno bisogno alla fine, per essere riconosciute, anche loro di almeno 35 anni di contributi versati ed i calcoli quindi, vanno rifatti sul tasso di copertura.
Ad esempio una persona che comincia a lavorare oggi a 34 anni e andrà in pensione nel 2046 dopo 35 anni di lavoro dipendente prenderà il 70% dell’ultimo stipendio. Che si riduce al 54% per un lavoratore autonomo (ma questi versano all’Inps il 20% contro il 33% dei dipendenti). Anche ipotizzando il caso di un precario che restasse tale per tutta la vita lavorativa, la conclusione è che andrebbe in pensione con un assegno pari al 57% dell’ultima retribuzione.
Non tutti i mali vengono per nuocere. Almeno godiamoci la felice prospettiva.
Questo è l’effetto del metodo di calcolo contributivo applicabile a tutti quelli che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995. Più anni si lavora più contributi si versa e quindi più si prende.
E’ Enrico Marro del Corriere della Sera che ci spiega qual è il corretto modo di applicare la norma. Si è sempre fatto riferimento al sistema contributivo come una mannaia per le pensioni e che le livellasse a circa la metà dell’ultimo stipendio. Ma questo era vero con l’età pensionabile sui 58-60 anni per quella di anzianità (con 35 anni di contributi) e 65 per quella di vecchiaia, 60 per le donne.
Il giovane invece, non potrà andare in pensione prima di aver raggiunto 65 anni e 3 mesi se avrà i 35 anni di contributi necessari per la pensione anticipata, senza differenze tra uomini e donne. Altrimenti dovrà attendere fino a 69 anni e 3 mesi. Sarà infatti questa l’età di pensionamento di vecchiaia richiesta nel 2046, per effetto di tre misure: finestra mobile (la pensione decorre con ritardo di 12-18 mesi rispetto alla maturazione dei requisiti), aumento a 65 anni dell’età di vecchiaia per le donne e adeguamento automatico ogni tre anni dell’età pensionabile alla speranza di vita.
Ricapitolando. Le pensioni di vecchiaia avranno bisogno alla fine, per essere riconosciute, anche loro di almeno 35 anni di contributi versati ed i calcoli quindi, vanno rifatti sul tasso di copertura.
Ad esempio una persona che comincia a lavorare oggi a 34 anni e andrà in pensione nel 2046 dopo 35 anni di lavoro dipendente prenderà il 70% dell’ultimo stipendio. Che si riduce al 54% per un lavoratore autonomo (ma questi versano all’Inps il 20% contro il 33% dei dipendenti). Anche ipotizzando il caso di un precario che restasse tale per tutta la vita lavorativa, la conclusione è che andrebbe in pensione con un assegno pari al 57% dell’ultima retribuzione.
Non tutti i mali vengono per nuocere. Almeno godiamoci la felice prospettiva.